Quando Mark Zuckerberg è stato chiamato a testimoniare davanti al Congresso degli Stati Uniti d'America dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, molti si sono chiesti chi fosse il responsabile della situazione creatasi e cosa significasse quello a cui si andava incontro. La questione non era rivolta solo a quanto si andava ad osservare, le audizioni davanti al Congresso, ma, in una prospettiva molto più ampia e molto più inquietante, a come dobbiamo pensare che cambierà il nostro mondo.
Le audizioni vedevano da un lato dei funzionari statali eletti settuagenari, uomini e donne che la popolazione ha eletto nella speranza di essere protetta da abusi e malgoverno, che, nella sequenza di domande che ponevano, si rivelavano assolutamente incapaci di comprendere e governare il mondo creato delle Big Tech, vale a dire, quella che oggi è l'economia americana. Dall'altro lato c'era Zuckerberg, uno degli uomini più potenti del mondo per denaro, dati e accesso agli occhi e alle orecchie delle persone, che andava affermando, sotto giuramento - un atto dal fortissimo valore simbolico e legale in USA - che non aveva praticamente idea di come la sua compagnia da 590 miliardi di dollari avesse guadagnato i suoi soldi, molto meno di come avesse compromesso la democrazia e inavvertitamente fatto perdere valore a un intero settore industriale. La domanda che ha percorso la mente di molti è stata: "tra i politici e Zuckemberg, chi è veramente sotto inchiesta?"
Oggi sono stati pubblicati due nuovi saggi che provano a decodificare e a dare un senso alla palude in cui sembra essere una delle democrazie più avanzate in Occidente: la Silicon Valley sta decimando le istituzioni - la politica in primis - e il governo degli Stati Uniti sembra incapace o disinteressato per riuscire a fermarla. Facciamo una breve presentazione di questi studi.
Il primo testo è di Lucie Greene: Silicon States: The Power and Politics of Big Tech e What It Means for Our Future (Counterpoint). La Greene intraprende un'indagine olistica e storica sulle relazioni della tecnologia con il settore pubblico, prevedendo le possibili implicazioni che le tecnologie avranno su elezioni, media, sanità, istruzione e filantropia. Cary McClelland, invece, parte dalla premessa che quello che succede a San Francisco, sarà il futuro della nazione e il destino del mondo. Il suo Silicon City: San Francisco in the Long Shadow of the Valley (Norton) limita il suo campo d'indagine alla Bay Area, cioè l'area metropolitana che circonda la Baia di San Francisco nella California settentrionale. McClelland centra la sua analisi mostrando il contrasto tra il governo locale che agisce lentamente mosso da un idealismo sociale e un settore privato in accelerazione. Entrambi gli autori, di fatto, offrono un'analisi autorevole dei tentativi falliti delle istituzioni pubbliche USA di tenere sotto controllo la Silicon Valley e contemporaneamente sono una traccia di intellettuali che cercano di dipingere un futuro tangibile sebbene le loro analisi soffrano di critiche discutibili.
Partiamo dal testo di Greene. L'autrice è una futurist che lavora presso lo studio di marketing J. Walter Thompson,la sua ipotesi parte dalla costatazione che Google, Amazon, Facebook e Apple - identificate dall'acronimo "GAFA", nel suo testo - hanno assunto il ruolo del servizio pubblico in una modalità wireless e simultaneamente hanno eroso la fiducia nell'amministrazione pubblica. La sua ricerca si presenta come una sintesi di studi accademici, di interviste e di tendenze di mercato. Quello che ne emerge è un presente in cui il regionalismo è stato quasi completamente sradicato. Nella concezione di Greene sugli "Stati del silicio", l'automazione e le disuguaglianze di reddito sono arrivate pericolosamente vicino a schiacciare le classi meno abbienti. Secondo Greene il monopolio che il GAFA ha, di dati e servizi, lo costituisce come uno "stato di polizia dei consumatori" e la Bay Area assomiglia, con le sue ingiustizie e el sue dinamiche sociali, a una vecchia città industriale. Su questa analisi dobbiamo qui far notare che anche se Netflix è spesso citato nel mondo del business come uno dei cinque to-big-to-fail, cioè troppo grandi per fallire, della Silicon Valley, l'azienda non è mai presente nelle proiezioni di Greene.
La Greene ricostruisce una cronologia del mondo dell'innovazione USA che ricostruisce come questo diverga dal mondo della difesa e del governo arrivando alle unicorn startup, cioè di quelle aziende che, fondate dopo il 2003, hanno già raggiunto un valore superiore al miliardo di dollari. Laddove molti degli antenati della Silicon Valley hanno applicato le loro idee allo sviluppo di tecnologie militari, negli anni '70 gli imprenditori - molti ispirati all'etica e alla cultura accademica respirata a Stanford - hanno iniziato a sviluppare hardware rivolto ai consumatori prodotto da società indipendenti. Questi furono i primi disruptor, un termine tecnico che indica un player nuovo e agile in grado si sovvertire le regole del settore rendendo obsolete e fuori mercato aziende “tradizionali”. Tra questi ci sono personaggi come Steves, Jobs e Wozniak che hanno abbracciato un atteggiamento controculturale, immaginando un futuro online di sistemi aperti e frontiere aperte. Questo concetto di internet decentralizzato e libertario persiste oggi, molto tempo dopo che i VC dollars, cioè i soldi del venture capital, l'apporto di capitale di rischio da parte di un investitore per finanziare l'avvio o la crescita di un'attività in settori ad elevato potenziale di sviluppo, hanno spinto il valore di queste aziende alle stelle. "Regoliamo acqua, energia, strade e televisione", scrive Greene. "Ma Internet è ancora difeso come qualche cosa diversa, e 'speciale'".
Secondo Greeene, non importa se la Silicon Valley produca case di carta, società basate su servizi effimeri o prodotti tangibili: sono società create prima per disruption e secondariamente per redditività. Poiché garantiva uno stato di consumo senza frontiere e orientato alla domanda, il GAFA promette di esere gli unici in grado di governarlo. Diventando così enormi, onnipresenti e mission critical per la grande economia americana, hanno realizzato efficacemente il libero futuro libertario che i loro antenati anticipavano. Tuttavia tornando al testo, è nei dettagli di questo piano che i pronostici di Greene diventano confusi. La sua visione del futuro dell'assistenza sanitaria e dell'istruzione è per lo più limitata alle app per il benessere e alle alternative online al college. Per un'autrice che afferma di essere sospettosa nei confronti delle aziende e motivazioni dei big della Valley, c'è una grande dose di apologetica per Zuckerberg, Elon Musk e Peter Thiel - come se il loro puro potere li rendesse infallibili indipendentemente dal resto.
Lo sguardo posto su Zuckerberg nel testo sembra esageratamente poco attento. Dopo che Greene enumera con enfasi i vantaggi commerciali che Zuckerberg ha prodotto con il portare internet gratuito nei paesi in via di sviluppo, praticamente lo propone come legittimo candidato alla presidenza. Ignora però le numerose analisi critiche a questa operazione di propaganda e alcuni degli effetti più tetri che sembrano essere emersi da questa infusione tecnologica nei paesi del Global South. Inoltre il tour in tutti gli USA e il live streaming dell'uragano Maria lo fanno apparire solo un po' stonato piuttosto che un imperialista sociopatico con la cattiva abitudine di mentire ai suoi clienti e con nessuna idea di come funzioni il suo prodotto o che cosa serva. Considerando la proposta di una corsa presidenziale di Zuckerberg, Greene arriva a concludere: "Facebook potrebbe essere una forza potente nel definire un candidato di successo e influenzare l'esito di un'elezione".
Nel capitolo che esamina lo stato dei media digitali sembra esserci altrettanta miopia. Greene è vagamente consapevole delle contraddizioni: Facebook, Google e Twitter si offrono sia come piattaforme che come divulgatori di notizie, le crisi stimolate da notizie false e il preferire la libertà di parola sulla soppressione dell'odio e sugli attacchi personali. Ma in qualche modo è più critica nei confronti di ciò che percepisce come un'ondata progressista su piattaforme apparentemente neutrali: Greene si lamenta di Facebook perché le sembra una eco chamber di centro-sinistra più che delle possibili fake news di destra operate da troll e da hacker di dubbia origine e appartenenza politica.
Per quanto riguarda ciò che il governo degli Stati Uniti potrebbe fare, Greene suggerisce di guardare all'operato dell'Unione europea con una maggiore ostilità ai monopoli e alle fusioni. Oltre alle restrizioni imposte a Airbnb, Uber e alla riservatezza dei dati, cita Margrethe Vestager che ha recuperato 13 miliardi di euro di tasse da Apple, 110 milioni di euro da Facebook per documentazione ingannevole durante l'acquisto di WhatsApp, 250 milioni di euro da Amazon per i benefici illegali sulle tasse e 2,4 miliardi di euro da parte di Google per concorrenza sleale. Per rafforzare il suo discorso cita Dave McClure di 500 Startups: "Le persone che gestiscono alcune delle più grandi aziende probabilmente hanno una popolazione più ampia di utenti rispetto a molti paesi. Non penso che stiamo trattando quella gente secondo uno stesso standard". Eppure Greene rinuncia ad accusare i signori della tecnologia. "Forse è ingiusto attribuire alle compagnie della Silicon Valley una intenzione così machiavellica", afferma. "I loro fondatori probabilmente non hanno nemmeno percepito l'impatto collettivo che le loro tecnologie potrebbero avere sulla società man mano che i loro usi saliranno alle stelle". Certo allo stesso modo, Alfred Nobel probabilmente non immaginava che la nitroglicerina sarebbe divenuta il mainstreaming della dinamite, eppure...
Passiamo a Silicon City. Cary McClelland cattura la disruption di massa di fronte a un'amministrazione inflessibile e chiusa in cicli elettorali di quattro e otto anni. Il testo è una raccolta di interviste molto variegate: gli investitori, gli accademici e gli urbanisti intervistati mostrano una comprensione migliore di ciò che sta accadendo rispetto a scultori, ai banchi di pegno e ai tatuatori. McClelland fa un ritratto delle iniquità sistemiche sulle vite individuali che vale la pena leggere.
La San Francisco di Silicon City è profondamente distopica, una città in cui le disuguaglianze di reddito sono esacerbate dalle stesse società che forniscono la loro linfa vitale economica, la gentrification ha allontanato i lavoratori dai luoghi di lavoro e gli autobus di Google passano davanti ai senzatetto. Ma per McClelland, è un vero microcosmo in quanto le questioni civiche che affliggono disperatamente San Francisco - il crollo delle infrastrutture, i cambiamenti climatici, l'incarcerazione di massa e le scuole in fallimento - sono quelle che formano linee di divisione in tutta l'America. "La sfida per la Bay Area non è se possa scegliere un'identità - super-città tecnologica libertaria o utopia liberale sponsorizzata dallo stato", scrive nel prologo, "ma se può trovare un po 'di armonia dove il meglio di ciascuno può fondersi".
Presi insieme, i soggetti dell'intervista di McClelland trasmettono un immagine di San Francisco come quella di una Shangri-La, un luogo immaginario descritto nel romanzo Orizzonte perduto di James Hilton del 1933, progressista e sotto assedio, ma gli echi delle diagnosi di Greene emergono in ogni capitolo. Un urbanista spiega in dettaglio come la missione di Stanford, ormai vecchia di un secolo, detti il più ampio sistema di valori nella tecnologia contemporanea. Come Greene, McClelland riesce a mappare l'insolita combinazione di valori libertari e di sinistra che gareggiano per la supremazia all'interno di qualsiasi assemblea cittadina. Un ex membro del consiglio delle autorità di vigilanza cita l'inutilità del governo municipale in un mondo senza fili. "L'idea di tassare un'impresa situata nella tua giurisdizione è quella di compensare l'impatto dei lavoratori sulla disponibilità di alloggi, sul transito, sui parchi, su altri servizi cittadini", afferma. "Oggi, città come Palo Alto e Menlo Park stanno riscuotendo le tasse aziendali dalle società tecnologiche con sede lì, ma non si occupano degli impatti delle abitazioni che i lavoratori creano". Eppure anche oggi, nel 2018, Apple è in grado di tenere interi comuni sotto scacco grazie al gettito fiscale che fornisce, mentre Amazon mette le città l'una contro l'altra in una battaglia stile Hunger Games cercando di individuare quale municipio si arrenderà prima alla compagnia in cambio del diritto di ospitare il suo prossimo campus.
Il testo di McClelland ha toni leggermente prescrittivi. "È come se tutti si fossero concentrati per così tanto tempo sui propri problemi da diventare civicamente miopi e aver perso la capacità di vedere i problemi in un'altra parte della città, dall'altra parte della strada, persino dalla porta accanto", scrive nel capitolo introduttivo. Un Venture Capitalist intervistato solleva una domanda straziante: senza la Big Tech, cosa sosterrebbe l'economia di San Francisco? Potrebbe essere San Francisco un'altra città portuale in declino, come Baltimora West, o una città industriale post-industriale legata alle risorse come tanti dei suoi vicini della California settentrionale?
Per i vari intervistati il futuro è cupo. I soggetti più ottimisti di McClelland professano la fede in startup rivoluzionarie e fondazioni filantropiche, ma il suo ultimo intervistato è un uomo nel mezzo di uno sciopero della fame di fronte al municipio. Incoraggiata dalla popolarità online dei sopravvissuti del parco, Greene spera che la Gen Z sarà quella di un risveglio politico che, a suo avviso, è sfuggito ai millennial.
La cosa più frustrante è che le 550 pagine dei due libri sommati analizzano le pressioni sistemiche indotte dall'industria tecnologica e l'incapacità del governo di combatterle, entrambi i libri soffrono di un'incomprensibile demonizzazione dei millennial come implacabili pozze di vanità. I soggetti di McClelland caratterizzano la gentrification della Bay Area come un attacco malevolo, come se ogni ventitré-trentenne a San Francisco fosse un miliardario di Harvard che ha personalmente deciso di sostituire i residenti, piuttosto che arrivisti senza soldi che si adattano a un'economia americana in cui circa tre città e mezza hanno tutte le industrie di cui parlare. "I bambini che fissano uno schermo fanno sei figure all'anno e non hanno idea di cosa sia il mondo", brontola una guida turistica. Anche al San Francisco Chronicle l'editorialista condanna i "tech bros", respingendoli con un semplice, "Sono miliardari che indossano felpe con cappuccio". Nessuno sembra considerare che se i dipendenti di Google e Facebook fossero rimasti fermi anziché trasferirsi nella Baia, probabilmente sarebbero stati schiacciati e disoccupati come tanti dei loro vicini, o che vaste distese del paese sono così affamate di lavori che hanno steso il tappeto rosso per i suprematisti bianchi fascisti che hanno promesso un ritorno agli anni '50.
Greene anche cinicamente condanna i millennial per la loro apatia politica con una feroce, insensata vendicatività. "Per i ricchi e millennial urbani", scrive, "le nazioni sono così globalizzate che credere in qualcosa di così stupido come una causa comune come il loro stato è al di là di esse. Sono troppo occupati a fare selfie a Cuba, pubblicare su Instagram la loro cucina vegana, acquistare abiti di Lululemon e farsicrescere i baffi. Per la Greene la consegna e le app in condivisione sono un segno: "Guardiamo come la cultura on-demand abbia già trasformato i millennial urbani in una tribù di bambini egoisti impazienti, incapaci di gestire qualsiasi realtà sociale, per non parlare dei taxi (grazie Uber), l'amore (grazie Tinder ), le consegne (grazie Seamless) e - ehm - qualsiasi cosa (grazie a TaskRabbit), è impensabile immaginare cosa ciò possa fare al nostro senso di autocoscienza collettiva. È così brutto aspettare un treno?"
La soluzione di Greene? "Il problema risiede nel governo e nelle politiche irrilevanti per i giovani, e quindi nell'aver creato un vuoto di influenza. Le aziende della Silicon Valley pensano come marchi. Forse il governo dovrebbe fare la stessa cosa, rendendo il suo lavoro e il suo ruolo nella vita apparentemente avvincenti e preziosi, e le elezioni una parte obbligatoria della cittadinanza".
Fortunatamente per la società, Facebook e il resto dei GAFA tendono, prima o poi, a se stessi. L'irriverente licenziamento di Orrin Hatch da parte di Zuckerberg durante la sua testimonianza di aprile - "Senatore, pubblichiamo annunci"- era, inavvertitamente, un'accusa di gran lunga maggiore sulla società, sul modello delle entrate e sull'industria di quanto qualsiasi senatore di 84 anni avrebbe potuto imporre. Greene e molti degli intervistati di McClelland hanno tutti i pezzi per accertare i modi precisi in cui hanno fallito sia la Silicon Valley che il governo, ma non sono proprio in grado o disposti a metterli insieme. Ma fintanto che la filosofia del muoverti-veloce-e-rompi-gli-schemi della Silicon Valley offre un'alternativa attraente alle istituzioni pubbliche letargiche, è esacerbata dal circolo vizioso in cui i funzionari eletti diminuiscono la fiducia nel governo abbattendo i servizi sociali.
Se Joseph de Maistre aveva ragione nel ritenere che ogni nazione ha il governo che merita, allora ecco il presidente Zuckerberg.